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Intervista ad Alessandra Sonia Romano, la violinista della Shoah

L’artista si esibisce con uno strumento appartenuto a Eva Maria Levy, deportata a soli 20 anni ad Auschwitz-Birkenau

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Nella foto, Alessandra Romano in concerto. Da dicembre 2016, è stata scelta come violinista del “violino della Shoah”, strumento dall’importanza storica straordinaria

Fortemente legata a Trezzano, Alessandra Sonia Romano è una artista di fama internazionale di origini milanesi. Da dicembre 2016, è stata scelta come violinista del “violino della Shoah”, strumento dall’importanza storica straordinaria. Durante i suoi concerti, infatti, suona il violino appartenuto a Eva Maria Levy, ebrea morta nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.Tramite la sua arte vuole emozionare, far riflettere e tenere viva la memoria di quella ragazza, con la voce del suo strumento. Non solo musica. Alessandra è anche un’autrice di libri.

Da qualche settimana ha presentato proprio a Trezzano l’ultimo suo libro. Di cosa racconta? Ho un legame che dura da vent’anni con la città: ho insegnato musica alla Scuola Civica e il comune mi ha chiamato spesso per spettacoli ed eventi. L’ultimo è stato appunto il 13 marzo, per presentare il mio libro “I violini e la loro anima”. Parla di violini e d’arte e anche delle lezioni che ho dedicato alla scuola virtuale di Trezzano (un progetto ideato dal comune con lezioni online su diversi argomenti, accessibili a tutti) operativa durante la quarantena.

 Come le è venuta l’idea di scrivere?  In realtà non pensavo di farlo. Durante il lockdown scrivevo tutto quello che mi passava per la testa, era il mio sfogo. Poi ho fatto leggere quel che avevo scritto ad Alberto Carutti, il mio mentore, e lui lo ha inviato ad una casa editrice. È piaciuto, quindi da lì la pubblicazione.

Come ha iniziato a suonare il violino? Perché proprio questo strumento? Ho iniziato quasi per caso. Ricordo che un giorno alle elementari erano passati a farci vedere degli strumenti e quando ho visto un bambino suonare il violino ho pensato “anche io voglio farlo”. Il suono mi è piaciuto molto. Era diverso e nuovo per me rispetto agli altri strumenti che più o meno già avevo visto. E così poi ho frequentato il conservatorio Verdi a Milano e poi il Royal College of Music a Londra.

Come mai la scelta di trasferirsi proprio a Londra per continuare gli studi? Quando si arriva a un certo punto qui in Italia non puoi specializzarti ulteriormente. Dopo il diploma ho avuto l’opportunità di andare negli Stati Uniti a fare un’audizione con Dorothy DeLay, che è stata l’insegnante di alcuni dei più grandi violinisti dei nostri tempi. Lei mi ha incoraggiata a proseguire nella carriera violinistica ed è stata lei che mi ha indirizzata al Royal College a Londra. Mio fratello già viveva lì e quindi anche a livello economico era una situazione più che gestibile.

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Nella Foto, Alessandra Sonia Romano e il suo mentore Carlo Alberto Carutti

Come ha avuto il violino di Maria Levy? Anche qui, quasi per caso. Nel 2017 ero a fare un concerto a Cremona al Museo civico in cui erano esposti diversi strumenti prestati da Carlo Alberto Carutti – un mecenate milanese – e fra questi, anche il violino. Fortuna ha voluto che fra il pubblico quel giorno ci fosse proprio Carutti, che a fine concerto mi ha chiesto se volevo provare lo strumento. Lui era già da un po’ in cerca di qualcuno a cui affidarlo, qualcuno che volesse prendersene cura e che sapesse suonare bene. Così, dopo avergli eseguito un paio di brani, ho accettato di tenerlo. Da quel momento ci abbiamo messo un paio di mesi per sistemarlo, ogni volta suonandolo e poi andando dal liutaio per farlo aggiustare. È stato un periodo intenso, in cui ho sentito che il violino cresceva con me. Ed ora ha finalmente un suono potente e magnifico.

Qual è la storia dello strumento? È stato fabbricato da Collin Mezin.  La proprietaria si chiamava Eva Maria Levy, detta Cicci. Glielo aveva regalato suo padre Edgardo. La famiglia Levy viveva a Torino quando, dopo l’emanazione delle leggi razziali, decise di trasferirsi in Svizzera. Arrivata nel comasco, probabilmente fu tradita da coloro che avrebbero dovuto portarla in salvo. Arrestata dalla Gestapo con la madre Egle Segré e il fratello Enzo, Maria Levy  fu deportata ad  Auschwitz-Birkenau. Aveva solo 20 anni ed era bellissima. Mentre la madre fu subito mandata alla camera gas, il fratello fu costretto a lavorare in una fabbrica di gomma gestita dai  nazisti. Lei aveva con sé il suo violino e cominciò a suonare, con altri detenuti,  nell’orchestra dei campi. Purtroppo però un giorno il violino le si ruppe e, allora, la rinchiusero in un bordello. Pur di non lasciarsi sopraffare da quel destino, lei si buttò dalla finestra del secondo piano dell’edificio che lo ospitava.

Come è venuta a sapere della storia della proprietaria? All’interno del violino c’era un piccolo biglietto, scritto in tedesco “Der Musik macht frei” “la musica rende liberi” da cui Carutti aveva avviato le sue ricerche. Quando mi ha mostrato una foto della ragazza e di suo fratello ho deciso che l’avrei aiutato: mi era entrata nell’anima. Da lì abbiamo continuatoa indagare assieme. Se sapevamo che c’era un Levy a Torino noi lo andavamo a incontrare. Così, pian piano siamo riusciti a ricostruire tutto. In realtà non pensavamo di riuscire a scoprire alcuni tasselli, essendo scomparsi tutti i personaggi coinvolti nella storia, fino a che una persona di Bologna ha telefonato ad Alberto dicendogli che lei aveva conosciuto da piccola il papà di Eva Maria. È lei che ci ha raccontato il finale della storia: del suicidio della ragazza e di come il fratello, che era stato imprigionato a Monowitz, riuscì a sopravvivere, ritrovò  il violino in un magazzino e lo riportò in Italia, a Torino dove lo consegnò a un restauratore. Ma non tornò mai a ritirarlo: morì suicida nel Natale del 1958.

Adesso lei è, di fatto, una violinista conosciuta a livello internazionale, era questo il suo obiettivo? Sì, in realtà lo sognavo. Sono sempre stata ambiziosa. Non nego che però ci sono state tante cadute: ho dovuto ricominciare da capo a fare la gavetta tante volte. Ad esempio, tornata in Italia da Londra pensavo che avrei avuto tutte le porte aperte. Invece no. Dopo 6 anni all’estero io non conoscevo più nessuno, avevo pochi contatti e alla prima persona con cui ho parlato per chiederle di fare un concerto mi ha detto “faccio suonare solo i miei amici”. Quindi ho dovuto tornare in orchestra ed era anzi quasi controproducente dire che avevo studiato a Londra, perché creava gelosie.

Come mai non è rimasta a Londra? Ero tornata perché mia mamma non stava bene. Lei poi è mancata. E poi è successo: sono andata a Cremona. Il concerto. Ho conosciuto Carutti, che ha avuto a cuore anche la mia storia oltre che al violino.

Quali sono le sue prossime esibizioni a Milano? Il 10 maggio alle 20.30 suonerò alla Basilica di San Marco per il Concerto di Beethoven, assieme all’orchestra della Statale di Milano. Sarà un momento molto importante per me, perché Carutti è mancato il mese scorso e questo concerto era l’ultimo organizzato da lui. È una cosa che gli devo dedicare.

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