mercoledì - 1 Maggio 2024
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Una società del gruppo Giorgio Armani finisce in “amministrazione giudiziaria” per sfruttamento di lavoro nero e clandestino

Il provvedimento è arrivato a conclusione di un'inchiesta dei pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e dei carabinieri del nucleo Ispettorato del lavoro di Milano

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Nell’immagine un fotogramma del video diffuso dai carabinieri girato durante la perquisizione degli opifici cinesi

I “cinesi” producevano le borse con costi che non superavano i 93 euro, una società intermediaria le cedeva per 250 euro l’una alla casa madre. Quest’ultima le immetteva nei propri store a 1800 euro cadauna. Un circuito che si basava sullo sfruttamento del lavoro nero e clandestino. A finire sul banco degli accusati uno dei brand più importanti della moda italiana: Giorgio Armani.

Amministrazione giudiziaria

La Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations spa, società che si occupa della produzione di abbigliamento e accessori del gruppo Armani. Il provvedimento è arrivato a conclusione di un’inchiesta dei pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e dei carabinieri su un presunto sfruttamento del lavoro, attraverso l’utilizzo negli appalti per la produzione di opifici abusivi e il ricorso a manodopera cinese in nero e clandestina.

Scatole cinesi

La casa di moda – è l’accusa – affidava, attraverso una società in house creata ad hoc per la progettazione, produzione e industrializzazione delle collezioni di moda e accessori, la produzione di parte della collezione di borse e accessori 2024 a società terze, “con completa esternalizzazione dei processi produttivi”. Il problema è che l’azienda cui la commessa è stata assegnata non disponeva di “un’ adeguata capacità produttiva” e poteva competere sul mercato solo esternalizzando a sua volta le commesse ad opifici cinesi, i quali abbattono i costi ricorrendo all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento. Un gioco di scatole cinesi, per l’appunto.

Nessuna verifica

Secondo gli inquirenti, la Giorgio Armani operations spa, controllata dalla Giorgio Armani spa, sarebbe stata “incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo non avendo messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative ovvero delle capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato” riferito “all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento”.

Profitti a tutto gas

Un “sistema” che, sempre secondo gli investigatori del nucleo dei carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro avrebbe permesso “di massimizzare i profitti inducendo” l’opificio cinese “che produce effettivamente i manufatti ad abbattere i costi da lavoro (contributivi, assicurativi e imposte dirette) facendo ricorso a manovalanza ‘in nero’ e clandestina, non osservando le norme relative alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché non rispettando i Contratti Collettivi Nazionali Lavoro di settore riguardo retribuzioni della manodopera, orari di lavoro, pause e ferie”.

4 opifici irregolari su 4

L’indagine è partita nello scorso dicembre 2023 quando i carabinieri hanno effettuato “accertamenti sulle modalità di produzione, confezionamento e commercializzazione dei capi di alta moda procedendo al controllo dei soggetti affidatari delle forniture nonché dei sub affidatari non autorizzati costituiti esclusivamente da opifici gestiti da cittadini cinesi nella provincia di Milano e Bergamo”. Sono stati controllati quattro opifici “tutti risultati irregolari nei quali sono stati identificati 29 lavoratori di cui 12 occupati in nero e anche 9 clandestini”.

Condizioni drammatiche

Drammatiche le condizioni in cui avveniva il lavoro, testimoniato da foto e video raccolti dai militari. Negli stabilimenti c’era “una condizione di sfruttamento (pagamento sotto soglia, orario di lavoro non conforme, ambienti di lavoro insalubri), presenza di gravi violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (omessa sorveglianza sanitaria, omessa formazione e informazione). La manodopera utilizzata era obbligata a trovare ricovere in dormitori realizzati abusivamente ed in condizioni igienico sanitarie sotto minimo etico”. Sono stati indagati per caporalato quattro titolari “di aziende di diritto o di fatto di origine cinese” e nove “persone non in regola con la permanenza e il soggiorno”.

Sistema consolidato

Infine, sono state comminate “ammende pari a oltre 80.000 euro e sanzioni amministrative pari a 65.000 euro e per 4 aziende è stata disposta la sospensione dell’attività per gravi violazioni in materia di sicurezza e per utilizzo di lavoro nero”. Sulla Giorgio Armani operation invece è calata la scure dell’”amministrazione giudiziaria” per almeno un anno. Nel provvedimento si sottolinea come non si tratta di “fatti episodici” ma di un “sistema di produzione generalizzato e consolidato” che riguarda diverse “categorie di beni”, come “borse e cinture”, e che “si ripete, quantomeno dal 2017 sino ai più recenti accertamenti dello scorso febbraio” con la produzione “della merce a marchio Giorgio Armani” realizzata “in concreto” da “opifici cinesi”.

14 ore di lavoro per 2 euro all’ora

I giudici Pendino-Rispoli-Cucciniello hanno scritto nel provvedimento che la produzione negli opifici abusivi cinesi di accessori Giorgio Armani, era “attiva per oltre 14 ore al giorno, anche festivi”, con lavoratori “sottoposti a ritmi di lavoro massacranti” e con una situazione caratterizzata da “pericolo per la sicurezza” della manodopera, che lavorava e dormiva in “condizioni alloggiative degradanti”. E con paghe “anche di 2-3 euro orarie, tali da essere giudicate sotto minimo etico”. Da parte sua, il colosso della moda ha fatto sapere mediante un comunicato stampa che “La società ha da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura. La GA Operations collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti per chiarire la propria posizione rispetto alla vicenda”.

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