
Rozzano non è un alibi. È questo, in sintesi, il messaggio forte e chiaro che emerge dalle motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Assise di Milano ha condannato Daniele Rezza a 27 anni di carcere per l’omicidio di Manuel Mastrapasqua, ucciso nella notte tra l’11 e il 12 ottobre 2024 per un paio di cuffiette da 14 euro.
Il giovane, 19 anni all’epoca dei fatti, aveva accoltellato la vittima mentre tentava di derubarlo mentre tornava a casa dal lavoro, a Rozzano. La Procura aveva chiesto per lui una pena inferiore – 20 anni – invocando le “disagiate condizioni socio-familiari” e il “contesto difficile” in cui era cresciuto. Ma per la giudice Antonella Bertoja quelle motivazioni non reggono: “L’applicazione delle attenuanti generiche non può dipendere dal luogo di residenza dell’imputato, perché tale soluzione darebbe luogo a un odioso pregiudizio”, si legge nelle motivazioni della sentenza, pubblicate ieri.
Rozzano, sotto accusa? Inaccettabile
La Corte d’Assise smonta con decisione l’idea che il semplice fatto di crescere a Rozzano – o in qualunque area considerata “difficile” – possa rappresentare una giustificazione per una condotta criminale. “Una simile impostazione implicherebbe – proseguono i giudici – che tutti gli abitanti del Comune di Rozzano (ma non solo) siano maggiormente inclini alla delinquenza e quindi meritevoli di pene più lievi. Un’assurdità pericolosa.” Anzi, secondo la Corte, proprio una lettura così stereotipata “delinea una presunta incapacità dello Stato a colmare lacune educative e devianze sociali in una determinata area geografica”. In parole povere: attribuire l’omicidio al contesto sociale equivale a deresponsabilizzare l’individuo, negandogli quel libero arbitrio che ogni essere umano possiede, a prescindere dal luogo in cui è cresciuto.
Rezza non è solo “un prodotto dell’ambiente”
Secondo la giudice Bertoja, Daniele Rezza non può essere considerato una mera “proiezione dell’ambiente” in cui è cresciuto. “È un individuo – si legge nella sentenza – che, pur essendo influenzato dal proprio ambiente d’origine, dispone di libero arbitrio e di una personalità complessa, frutto di stimoli eterogenei stratificatisi nel tempo, sia positivi che negativi.” Anche il contesto familiare non viene ritenuto decisivo nel delineare un percorso di devianza: non c’è traccia di un ambiente “violento o conflittuale” che possa aver influito negativamente sulla sua formazione. Semmai, affermano i giudici, la famiglia appare più come “impotente e sottomessa” nei confronti del figlio, piuttosto che responsabile di una deriva criminale.
La giovane età sì, ma non basta
La Corte ha comunque riconosciuto che l’età di Rezza (19 anni) può aver avuto un ruolo nel determinare l’“immaturità e superficialità” alla base dell’azione omicida. Ma questo non basta a cancellare la gravità del gesto, né le aggravanti riconosciute: l’uso dell’arma, la minorata difesa della vittima e i futili motivi. Il verdetto finale parla chiaro: 27 anni di reclusione, una condanna ben più severa di quanto richiesto dall’accusa.
Un caso che accende il dibattito
La vicenda riapre il dibattito sul ruolo del contesto sociale nei reati violenti e sul rischio, sempre più presente, di trasformare le fragilità ambientali in attenuanti automatiche. La sentenza della Corte d’Assise di Milano segna un punto fermo: non si può etichettare un’intera comunità come fucina di criminalità, né si può sminuire un omicidio con generalizzazioni sociologiche. Rozzano, così come tanti altri territori di periferia, non è un attenuante: è una città fatta di persone, famiglie, giovani che vivono e lottano ogni giorno per costruirsi un futuro. Criminalizzare un’intera comunità – o, peggio, utilizzarla per giustificare la violenza – è il primo passo verso il pregiudizio, non verso la giustizia.
Il commento del direttore: essere di Rozzano non è un crimine
C’è una frase, nelle motivazioni della sentenza di condanna a Daniele Rezza, che risuona come un pugno ben assestato al ventre molle di certi automatismi giudiziari e, ancor più, sociali: «Essere di Rozzano non può essere un’attenuante». Una frase semplice, quasi ovvia. Eppure necessaria. Perché racconta molto più di un caso di cronaca nera: racconta di uno stigma, di un pregiudizio tanto radicato quanto pericoloso.
Daniele Rezza ha ucciso Manuel Mastrapasqua per un paio di cuffiette da 14 euro. Lo ha fatto con un coltello, nel cuore della notte, senza pietà. Per questo è stato condannato a 27 anni di carcere. La Procura ne aveva chiesti 20, invocando l’attenuante del contesto socio-familiare difficile. Ma la Corte d’Assise di Milano ha scelto di non cedere alla tentazione di una scorciatoia culturale che, in fondo, avrebbe detto: “Cresci a Rozzano? Allora sei anche un po’ vittima, anche se hai ammazzato qualcuno”.
Non è così. E la giudice Antonella Bertoja lo scrive chiaramente: «L’applicazione delle attenuanti generiche non può dipendere dal luogo di residenza dell’imputato, perché darebbe luogo a un odioso pregiudizio, in base al quale tutti gli abitanti del Comune di Rozzano (ma non solo) sarebbero maggiormente inclini alla delinquenza». Un ragionamento che merita applausi. Perché riconosce a ogni cittadino, anche al peggiore degli imputati, la sua individualità. E protegge, al tempo stesso, la dignità di un’intera comunità, quella di Rozzano e di tante periferie italiane troppo spesso ridotte a sfondo di degrado nei titoli di giornale.
La verità è che Rozzano non è un’etichetta. Non è sinonimo automatico di criminalità. È una città come tante, dove convivono problemi reali e storie quotidiane di lavoro, di studio, di fatica e di riscatto. Dove ci sono famiglie fragili, ma anche ragazzi brillanti, insegnanti appassionati, cittadini onesti. Dire che Rezza ha ucciso nonostante venga da Rozzano – e non perché ci è cresciuto – è un atto di giustizia. Umana, prima ancora che giuridica. Non si può trasformare la geografia in destino. Perché se crescere in un contesto difficile diventa un’attenuante generalizzata, allora l’ingiustizia si moltiplica: verso le vittime, verso i tanti giovani che da quegli stessi quartieri scelgono ogni giorno di non delinquere, verso un’intera parte del Paese che ha bisogno di politiche e investimenti, non di etichette.
Questo processo non chiude solo un caso giudiziario. Ci ricorda che la responsabilità personale non va mai annacquata nel contesto. E che l’Italia vera non è fatta di “zone rosse” da compatire o temere, ma di cittadini che, ovunque vivano, meritano rispetto. Anche – e soprattutto – quando si parla di giustizia.