
Questa è la storia di un sarto per passione, e per professione, che ha attraversato quasi cent’anni della storia d’Italia, che ne è stato testimone e protagonista. Attraverso il racconto delle giacche, dei completi, dei frack e degli smoking di alta sartoria che ha tagliato e cucito, Rocco Silvestre ha raccontato la trasformazione della nostra società e dei suoi valori. Dalla giacca di Salvatore Quasimodo, a quella di Gianni Meazza che ha confezionato quando fra gli Anni ‘60 e ‘80 lavorava per le migliori sartorie per uomo di Milano.
Con passione da 74 anni
Rocco Silvestre è nato nel 1935, in un paesino della Basilicata. Un paese, una comunità, che, dopo aver attraversato la grande crisi della seconda guerra mondiale, era determinata a uscirne e a costruire un futuro ai suoi figli. Un paese in cui ci si aiutava l’un l’altro fin dove si poteva, ma senza togliere il pane di bocca ai propri bambini, in un paese in cui il pane era davvero poco e spesso non bastava per tutti. Vive a Trezzano da più di mezzo secolo. Nonostante gli 88 anni compiuti lavora ancora, un po’ per mantenersi attivo, e continuare fare ciò che con passione fa da 74 anni e un po’ per integrare la pensione che, come per quasi tutti gli anziani, nonostante una vita di durissimo e appassionato lavoro, non basta da sola a garantire una vita tranquilla.
Uomo di sartoria
Le sue mani non sono mai ferme e sono ancora abili: non sbaglia un solo punto sulla giacca da uomo di sartoria cui sta ricucendo la fodera. I suoi pensieri sono le idee che si sono formate direttamente dalla sua esperienza di vita, di marito, di padre e di artigiano, in periodi in cui essere artigiano aveva lo stesso significato dell’ essere un artista.
Come ha iniziato?
“Ho iniziato tardi, perché ho finito tardi le scuole elementari. Avevo già 14 anni. Gli altri finivano a 10. In famiglia eravamo tanti, avevamo poco da mangiare, così prima di finire le scuole sono andato a fare il pastore per guadagnare qualcosa. Il mio stipendio era chili di farina e crusca che consegnavano a mia madre. Ho ripreso le scuole e poi mi hanno chiesto che mestiere volevo fare. Io ho detto che volevo fare il sarto. Ho iniziato il mestiere il 17 luglio del 1949. Tutti i genitori lavoravano in campagna, erano contadini. Così, per non lasciare in giro i bambini mentre si lavorava, li si metteva a bottega. Si iniziava presto ad aiutare, ancora prima di finire le scuole elementari, a 9 o 10 anni. Si imparava un mestiere e si impiegava bene il tempo. Non si era pagati. Al contrario, erano le famiglie che facevano dei regali a chi si prendeva il compito di insegnare il mestiere ai bambini.
Che mestiere voleva fare da bambino?
Ci voleva pazienza, per mettere un ago in mano ad un bambino. Il lavoro fatto dagli apprendisti andava disfatto e poi rifatto molte volte, prima di poterlo consegnare. Il mio era il paese dei sarti. I laboratori di sartoria erano tanti. Ci si basava sullo stile siciliano e sul punto napoletano e i sarti più bravi, quelli che potevano permetterselo, andavano a studiare in città. Quando tornavano al paese, li vedevo arrivare vestiti bene, eleganti come dei signori, e rimanevo affascinato. Volevo essere come loro. Per questo, quando ho finito le scuole elementari e mia mamma mi chiese che mestiere volevo fare, dissi che volevo fare il sarto.
Quale è stato il suo debutto?
In quel tempo c’erano gli apprendisti, i lavoranti, e il sarto. I migliori clienti erano i massari. Andavamo a lavorare in casa loro, per rivoltare i vestiti, ripararne alcuni e farne di nuovi. I lavoranti mangiavano in casa a pranzo e cena. Gli apprendisti avevano solo il pranzo. Lavoravo molto e con passione, e capitava che la padrona della masseria dicesse al mio principale di lasciarmi mangiare anche a cena, anche se ero un apprendista. Quando sono diventato bravo, mangiavo anche alla sera.
Come è arrivato a Milano?
Un giorno un mio compaesano tornò al paese per cercare un giovane da portare con lui a Taranto. Il mio maestro gli disse: “portati a Rocchino che ha tanta passione”. Era il mio maestro, non il principale. Il principale è quello che ti pagava, il maestro di un apprendista invece, era pagato lui. Così decisi di andare a Taranto. Facevamo le divise per la Marina Militare. C’erano i figli del titolare che si occupavano di fare le divise su misura per gli ufficiali, che erano più ricchi. Così, quando capitava l’occasione, cercavo di imparare da loro. Furono loro che mi consigliarono di non restare molto tempo a fare le divise dei marinai, per non rovinarmi la mano, il metodo. Alla fine scelsi di andare a Milano, perché lì capivano il lavoro e lo pagavano.
Ma a Milano, come è andata. Ha avuto fortuna?
Una volta il sarto non si arricchiva come lo stilista. Hanno fatto fortuna i sarti che hanno conosciuto i pittori come Carrà, o Sironi, quelli degli anni 40. Negli anni ‘60 era diverso. Ho fatto la Scuola di Taglio Ruggeri in via del Gesù, perché volevo essere un sarto completo. Si studiava la forma del corpo, il movimento, come far cadere bene gli abiti. Il sarto per il cliente era un amico e anche come il dottore. Di lui sapevamo ogni segreto. Sapevamo nascondere i difetti fisici, e vestire elegantemente anche chi li aveva. Si imparava a correggere una spalla cadente e anche ad essere discreto.
Ritrova gli stessi valori anche oggi?
Ora non è più la mia Milano. Si sono persi molti valori. Adesso quando la gente mi vede per strada pensa che io sia ricco. Io rispondo di si, che sono ricco. Poi mi chiedono quanti soldi ho. Io rispondo “ non mi devi chiedere quanti soldi ho, ma quanti abiti ho. E sono tutti conservati bene, perché la passione per il bello è anche nel conservare bene il bello. Io lavoravo in Cairoli, nelle sartorie, come aiutante. Erano le sartorie in cui si servivano i più ricchi, i personaggi. Il primo personaggio che ho conosciuto e vestito è stato Salvatore Quasimodo. Poi anche Pierangelo Motta e Umberto Agnelli.
Chi erano i suoi clienti?
Poi ho cambiato e sono andato a lavorare da un grandissimo sarto siciliano Caniglia, che è stato anche presidente associazione sarti di Milano. Lì come clienti avevamo Giuseppe Meazza. Al sabato si fermava a fare le schedine delle partite sul mio tavolo da lavoro. C’era Italo Allodi, il direttore sportivo dell’Inter. Poi Piero Chiara, lo scrittore. Mi ha regalato i libri “Il piatto piange” e “La stanza del vescovo”. Poi Bruno Cassinari, Sebastiano Ciliberto, e Antonio Corriga, il pittore. Poi c’erano tanti industriali, come Angelo dalle Molle, il padrone della Cynar. C’erano anche i costruttori, come l’ingegner Micia della Diterlizzi. Portavano i loro amici e conoscenti. Ero bravo ed ero ricercato, ma c’era anche una questione economica. Eravamo in tanti bravi, ma molti hanno preferito la sicurezza e sono andati a lavorare all’Alfa Romeo, altri sono stati assorbiti dalla confezione industriale.

Un episodio di quel periodo?
Quando c’era l’inaugurazione della stagione alla Scala e gli uomini mettevano gli smoking, il frack o i tight, i capi da sera, nell’ultima settimana guadagnavamo più di quello che guadagnavamo in un mese. Si lavorava anche di notte, dormivamo sotto i tavoli da lavoro, si prendeva altro personale perché bisognava consegnare per la sera della Prima. Si lavorava tanto. Poi andavamo a vedere, fuori dal teatro, quando arrivavano i nostri clienti. Ognuno guardava i suoi e giudicava quelli degli altri. Ogni lavorante aveva i suoi, e giudicava chi era vestito meglio, a chi cadeva meglio il frac, chi era più elegante. Il principale era soddisfatto della nostra competizione, perché così si tendeva tutti a cercare di fare meglio.
Che cosa e quando il clima è cambiato?
Poi è arrivato il ‘68 e hanno cominciato a buttare le uova sulle persone che andavano a teatro. Rovinavano i capi, e le pellicce. Così hanno smesso di fare le pellicce e di lavorare il pellame e hanno iniziato a usare le pellicce sintetiche. Hanno salvato gli animali, e liberato le lontre, che poi però hanno infestato le campagne. Ho vissuto quel periodo, li vedevo sfilare per scioperare. Vedevo Capanna, la Castellina, Lucio Magri, partivano da Largo Cairoli e io li vedevo. Hanno fatto politica parlando, ma non si battevano per i poveri, neanche Bertinotti, “mister cashmire”. Invece noi sarti, anche i principali, vivevamo per la passione, per insegnare e per fare cose belle. Il cliente era anche un amico. Anche quando mi sono messo in proprio, e mi sono fatto la mia clientela, non sfruttavo. Non mi piaceva lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Qualche rimpianto?
Nessuno. Noi sarti siamo individualisti. Ognuno vuole esprimere la propria visione. Ognuno è unico. Non facevo tanti vestiti. 3 o 4 al mese, perché erano come le Ferrari. Però non potevamo farli pagare molto. Ecco ho questo da dire: lo Stato ha sbagliato con noi sarti. Ho 54 anni di contribuzioni eppure pago ancora l’Inps. Adesso prendo poco più di mille euro al mese di pensione. Invece quei parlamentari del 68 solo parlando, prendono pensioni anche da più di 3 mila euro. Io credo che lo Stato a chi ha più di 80 anni, non solo ai sarti naturalmente, dovrebbe dare la possibilità di lavorare, quando ne hanno voglia, perché se si smette di lavorare, si finisce solo a fare una visita medica al giorno. Invece qui, lavorando, mi passano tutti i mali. Faccio risparmiare la sanità eppure pago ancora l’Inps.
Qual è il futuro della sua professione?
Non vedo futuro: danno dei soldi a dei ragazzi di 20 anni. Quelli non lavorano più. Gli tolgono qualsiasi passione per trovarsi un lavoro. Invece devono costruirsi un mestiere, magari come il mio che sta scomparendo. C’è un altro lato della medaglia. Vedo delle persone che puliscono le strade con passione, ed è una soddisfazione. Quando li vedo gli pago volentieri il caffè, perché è bello vedere lavorare con passione. Se questi ragazzi facessero un po’ di lavori umili, sa come sarebbe importante per loro? Vede, io sono orgoglioso di avere fatto il pastore quando ero bambino, perché saper fare il contadino è la vita. Il contadino sa che terreno scegliere per far crescere un seme. Così è la vita. Bisogna sapere dove piantare il seme, il mestiere. Sa cosa manca in Italia? Un po’ di meritocrazia. C’è appiattimento. Chi è bravo e si impegna prende la stessa paga di chi non lo fa. Così si toglie la voglia.
Quando si è messo in proprio e ha aperto la sua sartoria qui a Trezzano?
Era il 1968. Con i miei fratelli, che lavoravano come muratori, abbiamo comprato un negozio sulla pianta, ancora da costruire. Poi è arrivata la crisi dell’edilizia e i miei fratelli sono andati a lavorare in Sudafrica. Così il mutuo lo pagavo io. E per pagarlo facevo gli straordinari, e avevo 3 impieghi. Finito il mio lavoro alla sera andavo da un altro sarto, e al sabato e alla domenica da un altro ancora. Lavoravo dalle 6 del mattino, fino a mezzanotte, o alla una. Vedevo le mie figlie solo quando dormivano. Sono passati 12 anni, prima che riuscissimo a riunire tutta la famiglia, un Natale, a Trezzano. Mia madre e tutti gli 8 figli.
La sua più grande gratificazione?
Sa cosa succede nei piccoli paesi? Ti riconoscono la dignità e l’impegno, sei considerato se lavori bene. Da me venivano Marco Pizzi della Top calzature, di Vigevano, Sandro Sguazzini Bruno Stoppino, l’arredatore, dottor Pezzola, della farmacia internazionale di Varese, il dott. Zamberletti, che era nipote del ministro. Si conoscevano e passavano parola. Erano tanti, ma non riuscivo a seguirli tutti sempre perché, come dicevo, i miei sono abiti che hanno un costo. Come le Ferrari. Non se ne fanno tanti”.
Grande Rocco !!!
Parole dette col cuore che rispecchiano n pieno tutto ciò che in tutti questi anni hai fatto …..
Non c’è mai stata una volta in tutti questi anni che ti ho visto in disordine …… sempre impeccabile…..vestito con stile e gusto …..impettito con camminata veloce verso il tuo negozio ……
Un damerino ….
Sei un’esempio di virtù ……
Sempre con un sorriso , una parola gentile …..
Non ti tiri mai indietro …..
Dovrebbero imparare in tanti da te
sarebbe un onore per me poterla conoscere. Se fossi più giovane la pregherei di insegnarmi qualcosa. la abbraccio
Finalmente mio fratello Rocco ha il giusto e meritato riconoscimento per i sacrifici che ha fatto con il suo lavoro per tutta la sua famiglia e quella d’origine.
Dobbiamo ringraziarlo noi sorelle perché si è fatto carico di noi, essendoci venuto a mancare il padre nell’infanzia portandoci da piccole a Milano e permettendo ad ognuna di noi di esserci costruito il nostro futuro che, nonostante le avversità della vita, siamo tutt’ora rimasti uniti , come ci ha insegnato nostra madre, donna formidabile!
Un doveroso ringraziamento soprattutto a mia cognata Giuseppina e moglie di Rocco che nel corso degli anni ci ha accettati e supportati ed ha condiviso con suo marito la passione del mestiere ed è diventata la sarta personale di tutta la numerosa nostra famiglia
Caro Rocco ti auguriamo lunga vita!
Carissimo compaesano sei un uomo di grande rispetto e bontà, esempio da imitare. Ti auguro una lunga vita.
Caro Rocco,
è stata una piacevole sorpresa leggere l’intervista che hai rilasciato nella quale emerge quanta passione metti nel tuo lavoro o meglio nell’esercitare l’arte sartoriale.
Sai quanto affetto ti circonda ed in particolare l’amore e la riconoscenza che le tue sorelle hanno nei tuoi confronti.
Non desidero dilungarmi in ulteriori elogi e manifestazioni di stima in quanto sarebbero una mera ripetizione delle lodi che ti hanno già manifestato gli amici e conoscenti che hanno rilasciato i precedenti commenti.
Desideravo solo aggiungere un grande ringraziamento anche alla compagna della tua vita, alla bravissima Giuseppina.
Lunga, serena e felice vita ad entrambi.
Un forte abbraccio. Pierpaolo.
Caro Rocco,
ho letto con piacere questa intervista e la tua perseveranza e la tua ambizione per arrivare al successo devono essere un esempio.
Ti ho conosciuto da appena 15 anni, tutte le volte che passo a trovarti per me è sempre un piacere ascoltarti e ricevere le tue pillole di saggezza.
Ti ringrazio e ti auguro tanto bene e tanta salute insieme alla tua famiglia.
Con affetto Vincenzo