È sempre stretto il rapporto che lega Biagio Antonacci con Rozzano, la città che lo ha visto crescere e compiere i primi passi nel mondo della musica. Primi passi mossi a fatica. L’occasione per ricordare quel che ha rappresentato la città nella sua evoluzione di uomo e di musicista è stata la presentazione del suo nuovo album “L’inizio” il sedicesimo della sua carriera. Quelli che seguono sono alcuni brani dell’intervista rilasciata a Fabrizio Ruviglioni di Vanity Fair.
Ma quindi, che storia è la sua?
«Una storia infinita. A trent’anni pensavo che sarebbe finito tutto dopo un mese. A quaranta mi ripetevo: “Che culo ho avuto!”. A cinquanta sono entrato in una nuova fase: ero grande, per certi versi passato, ma in molti ancora mi ritenevano uno che valeva la pena ascoltare. Ora a sessanta ce n’è un’altra ancora, l’ennesima».
Citando il titolo: in ordine di tempo, questa fase è il suo ultimo «inizio»?
«In realtà no. Io inizio ogni giorno. Il mio ultimo inizio, adesso, è questa intervista. Stasera andrò a teatro, e sarà un nuovo inizio. E così via. Mi affascina il modo che hanno di concepire il tempo gli orientali, ciclico. Noi occidentali invece lo vediamo in maniera lineare: si nasce, si cresce, si muore. Ho riflettuto tanto sul tempo, tanto al punto che L’inizio, come titolo, quasi non mi rispecchia più».
Ci ha già ripensato?
«Certe interviste sembrano sedute di analisi: parlandone a voce alta, vengono fuori cose su di me o sulle canzoni che non avevo neanche considerato. Cambia tutto in fretta. Musica, per me, significa scoprirsi. Anche a sessant’anni».
Cosa le ha portato l’età?
«Meno paure. A vent’anni mi facevo molte più domande, ma ho perso tempo. Ai ragazzi dico di non rimandare, di non lasciare debiti. Perché poi si diventa grandi, e non c’è più tempo. Io ho perso tempo in cazzate, elucubrazioni, pensieri senza senso. E poi ci si ritrova a inseguire ciò che non si è stati. Ma ho capito: il momento più adatto per, non so, imparare a suonare la chitarra? È adesso».
Ha trovato la libertà?
«La libertà, e lo dico sempre ai giovani, non esiste. Esiste la consapevolezza. Conoscere sé stessi è l’unico modo per essere almeno in parte liberi. Io con la musica ho conosciuto me stesso. E oggi, grazie al successo e alla consapevolezza, ho il diritto di scegliere: di scegliere se continuare a fare musica, concerti, interviste; o cominciare a togliere un aspetto, poi un altro, poi tutto».
E questo come la fa stare?
«Meglio che a vent’anni. Uso il tempo in maniera diversa: all’epoca credevo che tutto dovesse finire da un momento all’altro; ora, paradossalmente, vedo più vita davanti a me».
È per questo che ha scelto di non mollare?
«L’ho scelto perché sono ancora ispirato».
Dopo più di trent’anni di carriera, davvero?
«È ovvio che gli artisti danno il meglio da giovani. Ma si continua a stare in questo mondo per l’ispirazione: serve musica ispirata, che sia bella o brutta. Biagio è un negozio: si sa cosa fa, cosa offre e il resto; se mi si vuole incontrare, sono qui. Difficilmente sarò in altri posti dove magari ci sono giovani, si vendono più dischi. Non è la mia filosofia. Anche se poi amo la musica giovane, dal rap all’indie. Di molti artisti sono anche amico».
Giorgio Poi, uno dei cantautori più interessanti della nuova generazione, ha scritto per lei L’inizio, il pezzo che dà il titolo al disco.
«È stata un regalo. Parla della scoperta della paternità, appunto un “inizio”. Mi piace il suo modo di scrivere, e mi piaceva che a scriverla fosse lui che non ha figli. Ha descritto la meraviglia dell’attesa in maniera stupenda».
Servono punti di vista diversi, no?
«Nel 2011 collaborai con i Club Dogo: all’epoca erano una realtà forte a Milano, ma nel mainstream avevano poco spazio; la mia voce, nel brano Ubbidirò, li ha aiutati ad andare in radio, ma l’ho fatto perché ci credo. Mi colpiva l’energia che trasmettevano nei club. Ero affezionato al rap milanese. Ma anche oggi sono a disposizione dei ragazzi, magari per consigli: tanto poi il consiglio che uno dà agli altri lo dà a sé stesso. E non sono un boomer, non mi piace quel modo di pensare».
Tra l’altro lei è stato il primo a mettere Rozzano, periferia di Milano, sulla cartina. Oggi da realtà del genere vengono tanti rapper. In questo senso, la sua è una storia modernissima.
«Non è una banalità, ma davvero crescere lì mi ha aiutato ad avere fame, sete di conquista. Non volevo diventare ricco, ma famoso: stare su un palco, fare felice la gente. Certo non è stata una realtà facile. La periferia è stata una scuola di vita, toglieva e toglie ancora tanto. Con le cattive frequentazioni per esempio, che erano sotto casa mia. La periferia si mangia i sogni. Ma la musica è stata la salvezza: ero un giovane batterista, e per questo mi rispettavano; il problema delle cattive frequentazioni è che se non si è con loro, si è contro di loro. Io non ho mai fatto quello che facevano loro solo grazie alla batteria: è una trappola, e se non si ha un sogno ci si cade dentro».
Che rapporto ha oggi con Rozzano?
«Sono legato a Jonathan Bazzi, nel senso che proprio l’ho visto nascere per amicizie di famiglie. Lui ha avuto il coraggio che non ho mai avuto: quello di raccontare Rozzano per ciò che era realmente, cioè un quartiere difficile. Io non l’ho fatto, pensavo, sbagliando, che fosse “parlarne male”».
Ha ancora amici lì?
«Alcuni sì. Ho anche amici che hanno fatto anni di galera. Tanti anni di galera. Solo che dagli errori s’impara: l’esperienza insegna».
Per altri versi la sua è una storia antichissima: per arrivare al grande successo ha impiegato dieci anni.
«Pensi che fino ai trent’anni facevo il geometra, un doppio lavoro. Non ero Lucio Dalla, né Venditti, né Baglioni. Ma volevo fare musica. E questo successo l’ho costruito con tanta fatica, mattone per mattone. Ho apprezzato tutto, e quando sono stanco e non mi va di salire su un palco ricordo quel Biagio lì, a tutta la strada che ha fatto e all’affetto della gente. Bene: mi passa tutto all’istante».
I tempi rapidi di oggi l’avrebbero messa in difficoltà?
«Non posso saperlo. Magari mi avrebbe aiutato ad arrivare in alto prima, e non sarebbe stato male. Ma poi forse adesso non saremmo stati qui a parlarne. Chissà. Però io non ragiono da vecchio, non mi piacciono le boomerate di molti colleghi: sono convinto che le canzoni belle ci siano ancora, che il livello sia addirittura alto e che, davvero, se uno merita cresce e resiste. La qualità della musica dipende dal messaggio, e basta».
Il messaggio può essere educativo?
«Certo. Può essere sia positivo e sia negativo. Le canzoni, così come le altre forme d’arte, hanno un impatto forte sulle persone perché non chiedono il permesso: entrano nelle nostre vite, nella nostra testa, e ci restano; se le canzoni bussassero saremmo noi a decidere quali far entrare, e non andrebbe più bene».
Lei oggi cosa cerca?
«Mi interessa aprire dei piccoli fori nella mia botte, e cercare il dialogo con le nuove generazioni; magari grazie a queste nuove canzoni, i ragazzi scoprono le vecchie».
È un dialogo difficile?
«Con sorpresa: no. L’ho visto lo scorso anno, quando mi sono esibito con Tananai in Sognami, una canzone tutt’altro che moderna. C’è stata un’ondata di affetto da parte del suo pubblico, spesso giovanissimo, sconvolgente. Mi dicevo: “Sarà solo un momento”. Poi l’abbiamo cantata anche in concerto, e il risultato è stato lo stesso. Ho provato a spiegarmelo: i ragazzi di oggi, come i ragazzi di sempre, hanno anche voglia di stare al sicuro, di essere confortati, e le canzoni-classico lo fanno. Io cantavo Battisti al falò, e le assicuro che per me Lucio era “vecchio”. Non voglio fare paragoni, ma se Sognami compisse quel giro, mi farebbe molto piacere. Cioè: in parte lo sta già facendo».
Tango di Tananai, tra l’altro, l’ha scritta anche suo figlio Paolo, che fa l’autore. Che consiglio gli ha dato per sopravvivere nella musica?
«Di fare in modo che la musica non superi mai la propria persona. È un pretesto per comunicare, nient’altro. Un pretesto, dicevo, per scoprirsi. Non è mai il tutto».
E diceva pure che quando dà un consiglio a un altro, in realtà lo sta dando a sé stesso…
«Ha ragione. Oggi non ho più paure, per quanto riguarda la mia carriera. Cosa dovrei temere, che i palasport si svuotino? Non sarebbe un problema: è dalle platee vuote che vengo, sarebbe la perfetta chiusura di un cerchio (ride, ndr). Però anche se passano fame e paura, il consiglio per mio figlio vale lo stesso per me, per andare avanti. La musica non è tutto, è una conseguenza. Il punto è l’amore che provo, l’amore per il prossimo. Racconto, vivo e vivrò quello. La musica è il mezzo».
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